26/09 – Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
Domenica 26 settembre 2021 si celebrerà la 107ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, riportiamo alcune delle nostre uscite più recenti dedicate a questa tematica e un estratto dal libro dello psicanalista Nazir Hamad “Le due figure dello straniero” (Traduzione di Cristina Guarnieri e Janja Jerkov, con un’intervista realizzata da Cristina Guarnieri presso il Centre Saint-Louis de France di Roma grazie all’intermediazione di Blanca Sofia Bresani, segretaria dell’Associazione Lacaniana di Roma).
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Lo straniero che è in noi
È forse questa idea di una frontiera interna al gruppo sociale che permette di fare luce sulla violenza delle periferie. È ancora Freud a offrirci una chiave di lettura: «Quando una cultura non è riuscita ad andare oltre lo stato in cui la soddisfazione di un certo numero di partecipanti presuppone l’oppressione di certi altri, forse della maggioranza – e questo è il caso di tutte le culture attuali –, è comprensibile che gli oppressi sviluppino un’intensa ostilità nei confronti di quella stessa cultura che essi rendono possibile con il loro lavoro». E Freud aggiunge: «Va da sé che una cultura che lascia insoddisfatti così tanti partecipanti e li spinge alla rivolta non ha alcuna possibilità di durare a lungo e neppure lo merita». Freud, consapevole della fragilità del nostro stato di civiltà, ci spiega che la cultura porta in se stessa i germi della propria malattia o, peggio ancora, della propria morte. Mi soffermo qui su un punto essenziale che Freud analizza diffusamente nell’Avvenire di un’illusione. Egli ci dice che se la maggioranza degli uomini accetta gli interdetti culturali, lo fa solo «per costrizione e per il tempo in cui la cultura è temibile». Peggio ancora: «Un numero infinito di uomini di cultura che si ritraessero per paura dinanzi all’omicidio e all’incesto, non si negherebbero però la soddisfazione della loro cupidigia, del loro piacere – desiderio di aggressività – e dei loro desideri sessuali». In un certo senso, la visione freudiana della cultura rifiuta le utopistiche idee egualitarie che sostengono una migliore condivisione dell’oggetto e il diritto di goderne. Ora, l’oggetto è tanto più desiderabile nella misura in cui ci fa baluginare la felicità e la completezza di un altro, posto in tal modo come un rivale. È l’oggetto dell’invidia agostiniana secondo l’accezione lacaniana dell’oggetto. Dal momento che un’infinità di uomini aspira soltanto a trasgredire gli interdetti culturali, basta giustificare un po’ la trasgressione per vedere che loro cominciano a comportarsi come se la cultura e i suoi interdetti non fossero mai esistiti. In altre parole, il barbaro è sempre una realtà. E questa realtà ci è comune. Lo straniero che le frontiere geografiche, religiose o etniche mantengono all’esterno ci serve da alibi, perché ne nasconde un altro. Il mio primo straniero è la mia immagine. Sia il bebè umano sia il cucciolo animale non si riconoscono nella loro immagine, la prendono per un altro che cercano di raggiungere. I bambini piccoli a volte si picchiano e, quando lo fanno, ci sono due vittime: quello che picchia e quello che è picchiato, perché l’io e il tu non sono ancora separati. La nostra immagine strutturata e integrata continua a soffrire di una mancanza fondamentale perché qualcosa le sfugge, qualcosa che non diventa virtuale, ed è normale perché è dell’ordine del Simbolico: la referenza fallica. Lo sforzo che uomini e donne fanno per superare questo disagio è notevole. Il tempo che passiamo davanti allo specchio prima di uscire non è trascurabile. Il ricorso alla chirurgia estetica per correggere qualcosa del proprio corpo è frequente, ma deludente, perché corregge il corpo, ma non l’immagine che è all’origine del disagio. Questo straniero è allo stesso tempo il più intimo e il più inquietante. Ci accompagna per tutta la vita. Freud ci racconta che una notte si trovava da solo in uno scompartimento del treno. La porta si apre per sbaglio e lui vede un vecchio signore in pigiama, con la barba bianca, entrare nella sua cabina. Sorpreso, Freud si fa prendere dall’inquietudine. Gli ci vuole un po’ per rendersi conto che quel vecchio con la barba bianca non è altro che la sua immagine allo specchio. È lo unheimlich, ci dice Freud. È insieme quel che c’è di più intimo e di più inquietante. Tra le cose che costituiscono la nostra inquietante intimità c’è il rapporto con la nostra immagine, i nostri fantasmi e il nostro godimento. La nostra immagine è destinata a rimanere mancante, i nostri fantasmi ci sfuggono e il nostro godimento non è mai perfettamente definito. Lacan è formale. Situa l’odio dell’altro su questo piano. Noi odiamo quelli che non godono come noi. Li odiamo, perché il loro godimento è la prova che il nostro godimento non è mai veramente compiuto.
Il rapporto con lo straniero, con l’estraneo, con l’immigrato, mai come oggi si muove su un campo di alta tensione e di conflittualità. La psicanalisi ci offre uno strumento nuovo per decifrarlo? Questo rapporto al giorno d’oggi è conflittuale, ma non è nuovo. Ogni volta che un Paese è in difficoltà economiche o sociali, identifica negli stranieri la fonte del proprio malessere. In altre parole, lo straniero diventa ingombrante. Ingombrante perché condivide qualcosa che sembra sempre più difficile da ottenersi per le stesse nazioni. La questione è, dunque: cosa può fare la psicanalisi?
La psicanalisi non parte mai dal presupposto che l’altro è lo straniero. L’altro è altro, come lei e come me. La figura dello straniero personifica il disagio di ciascuno. Siamo tutti “altro”, lei per me, io per lei, indipendentemente dal fatto che lei sia italiana e io francese o libanese, perché per uno psicanalista la nozione di massificazione non è accettabile: infatti, quale italiano potrebbe mai dire “io sono italiano come tutti gli italiani”? Per poterlo dire, occorrerebbe che vi fosse almeno un “italiano-tipo”. Attraversare le frontiere geografiche e linguistiche e cercare di integrarsi in un nuovo contesto e in una nuova cultura si fa al prezzo di una doppia perdita: una perdita cui ciascuna delle due parti deve acconsentire. D’altronde, non è una questione di scelta, perché la perdita si impone tanto all’immigrato quanto al Paese d’accoglienza. L’uno perde i suoi riferimenti abituali o, almeno, scopre che non sono più validi nella terra che lo accoglie. E l’altro è indotto a confrontarsi con ciò che non è abituale, a integrarlo poco a poco. I cognomi fanno parte di questo cambiamento. A causa dell’immigrazione europea i Martínez, i Gómez e i García, per esempio, fanno parte dei 250 cognomi più diffusi in Francia. Sicuramente vedremo nei decenni a venire cognomi di origine araba diffondersi quanto i Gómez e i García. Lo stesso accadrà con l’impatto della religione musulmana sui costumi di questo Paese. L’halal è un segno controcorrente dell’integrazione economica dell’islam in Francia, anche se si organizzano risposte sotto forma di aperitivi giganteschi per difendere i costumi ancestrali, di cui il maiale e l’alcol rappresentano il vessillo. Non si entra impunemente in una cultura o in una lingua nuova. È all’opera una perdita, ma non è mai quella che si crede. Una delle forme di questa perdita è la caduta dei riferimenti abituali che permettono al nome e al cognome dell’individuo che li porta di essere riconosciuto nella sua identità sessuale e nell’appartenenza. Uno dei segni che ci indica la difficoltà di trovare dei riferimenti dell’identità dell’immigrato è inscritto nella posta che riceve. Il mittente non è mai sicuro di quale sia il nome e quale il cognome e ancor meno dell’identità sessuale del destinatario. Quest’ultimo rischia di sicuro di ricevere una posta indirizzata a lui in quanto signora, signorina o signore. Lasciando installare dei nuovi venuti, la cultura che accoglie subisce inesorabilmente delle mutazioni permanenti che la dinamizzano o la sconvolgono. Tutto dipende dal grado di tolleranza dei “nazionali” di fronte agli stranieri e al loro apporto. Questo grado di tolleranza è spesso condizionato dalla dinamica dell’economia nazionale. Più l’economia è prospera, più l’immigrato – o, più precisamente, la manodopera straniera – è assimilato come un male necessario indispensabile all’evoluzione del Paese. La storia ci insegna che sono spesso le vecchie nazioni a patire maggiormente l’alterazione dei loro punti di riferimento identitari, come il fenotipo, la religione, il linguaggio, il nome e il cognome. Le nazioni giovani hanno la tendenza ad assimilare più facilmente i nuovi venuti, perché i punti di riferimento identitari sono necessariamente eterogenei.
Estratto da “Le due figure dello straniero” di Nazir Hamad, Castelvecchi.
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