A pochi giorni dalla scomparsa di Vittore Bocchetta pubblichiamo la prefazione di Oliviero Diliberto al libro “Vittore Bocchetta. L’ultima voce” di Giuliana Adamo che ripercorre la sua vita: ribelle fin dall’infanzia, antifascista, deportato, sopravvissuto alla “marcia della morte”, rimpatriato, esiliatosi per decenni nelle Americhe, ritornato in Italia, protagonista e testimone degli avvenimenti più tragici del XX secolo. A seguire un estratto a firma di Giuliana Adamo tratto dall’articolo pubblicato sul quotidiano l’Adige il 21 febbraio.
Noi sardi, pare strano, non finiamo mai di stupirci di altri sardi. Autori di gesta mirabolanti, “eroi dei due mondi” (in fondo, anche quello autentico venne a morire in Sardegna), banditi circondati (quasi sempre immeritatamente) da aloni leggendari, presidenti della Repubblica (e tanti politici molto illustri), grandi artisti che fanno regolarmente fortuna all’estero: una somma, per dirla tutta, di strepitose individualità, che tuttavia – anzi, forse proprio per questo – non sono diventate mai popolo, comunità condivisa, fratellanza. Viviamo – verso la nostra terra – un senso di sconfinato orgoglio e, al contempo, una continua lamentazione, rigetto, desiderio di fuga. La fuga, sì. Quella che, in fondo, consente ai tantissimi sardi emigrati di sentire insieme nostalgia e ripulsa, capacità di ritrovarsi popolo solo quando lontani dall’Isola: allora – e solo allora – desiderosi di vedersi, incontrarsi, parlare, vagheggiare una patria lontana. Anche questo libro ne è eloquente testimonianza. L’autrice, Giuliana Adamo, insegna in Irlanda. Il protagonista, Vittore Bocchetta, sassarese, è cresciuto a Verona, poi ha girovagato per il mondo, sino a trovare se stesso tra America del Sud e del Nord. Il postfatore, Paolo Cherchi, di Oschiri, ha insegnato decenni a Chicago, in una delle più prestigiose università degli Stati Uniti. Le righe che leggete le sta scrivendo un cagliaritano che vive a Roma da trent’anni. Ci si ritrova, dunque, nella lontananza. Ma in essa, appunto, riusciamo anche a dare il meglio (o il peggio, ma sempre esagerando) di noi stessi. Bocchetta ne è esempio paradigmatico. Nasce a Sassari nel 1918. Antifascista a Verona, arrestato, torturato, internato in Germania in un campo di sterminio, fuggito, tornato a Verona, emigrato in Argentina, poi in Venezuela, infine a Chicago.
Attraversa tutta la storia del “secolo breve”: quella con la “s” maiuscola (seconda guerra mondiale, nazismo, peronismo, maccartismo) e quella più modesta (si fa per dire), personalissima, di chi “confessa di aver vissuto” (Neruda ci perdonerà). Tre matrimoni, altrettanti divorzi, tendenza odisseica e perenne ribellismo. Incapacità ad essere e a farsi inquadrare, catalogare, disciplinare. Anche il suo rientro in Italia, dopo il campo di sterminio, è gravido di delusioni e incomprensioni: riscapperà. Il suo amore per la libertà è assoluto e l’Italia del secondo dopoguerra non può che deludere chi pensava si schiudesse un periodo di verità e rigore, coerenza e serietà. Trionferà viceversa – come ben sappiamo – il continuismo con il Ventennio, l’ipocrisia, il facile voltar gabbana. Per Bocchetta, semplicemente insopportabile. Un irregolare. In tutti i sensi. Si legge la sua storia con un misto di tristezza e invidia. Quest’ultima, anche e soprattutto per la sua capacità di reinventarsi continuamente: uomo di teatro, artista, scultore, studioso di letteratura spagnola, docente universitario, ma sempre picaro, irrequieto. Instancabile. Amante della vita. Non si è stancato ancora. Presidente onorario della FIAP (Federazione Italiana Associazioni Partigiane), oggi nella sua Verona, parla e scrive, racconta e indaga la vita. Giuliana Adamo è riuscita a rendere questo racconto di vita emotivamente coinvolgente: quasi che le prodezze di Bocchetta fossero un po’ anche le nostre, ti pare di essere lì, di vederle, di esserci. Anche questa caratteristica, se ci pensate, è molto odisseica, forse tipica di società pastorali: raccogliersi attorno al fuoco, raccontare e ascoltare l’aedo di turno, che riempie il silenzio di parole e gesti, di miti formati su tante individualità prodigiose, che danno lustro a una terra lontana. Il multiforme ingegno di Bocchetta ne è prova eloquente. Egli afferma con prepotenza – attraverso i fatti, i comportamenti concludenti, le azioni, sino ad oggi e per domani – la volontà di non piegarsi che – appunto – alla propria volontà, mai a quella degli altri.
L’orgoglio di sé. Anche questo, se vogliamo, molto sardo, isolano: la balentia migliore, quella buona, nel senso autentico della parola: il valore di ciascuno di noi. Al termine della lettura di questo libro, insomma, vi capiterà, come è successo a me, di capovolgere il vecchio detto manzoniano, divenuto proverbiale: perché uno, se vuole, il coraggio se lo può dare.
Oliviero Diliberto
Io non posso credere che non sia più qui, perchè il suo esempio, il suo sorriso, la sua storia di resistenza senza compromessi, il suo raffinato gusto del paradosso, la sua memoria formidabile, la sua profonda schiettezza e il suo grande affetto permeano, e permeeranno, l’aria che respiriamo. Vittore caro, che ti sia lieve la terra e ci stringiamo nel tuo vivo ricordo, e oggi tutta l’umanità è diminuita della tua scomparsa.
Giuliana Adamo