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La P2 e la Strage di Bologna

40 anni fa la scoperta degli iscritti alla loggia di Licio Gelli, di seguito un estratto dal libro “L’oro di Gelli” di Roberto Scardova.

Era un semplice appunto manoscritto da Licio Gelli e rivolto a «M.C.». Trattava di una grossa somma di denaro, cinque milioni di dollari, provenienti da un conto della banca Ubs di Ginevra, e consegnati in contanti dal 20 luglio al 30 luglio 1980 a persone non indicate; più sotto Gelli scriveva di un altro milione di dollari consegnato il primo settembre dalla signora Agnolini, impiegata della banca svizzera Ubs, a un certo «cap» nella sua sede. A beneficio di chi fosse questo versamento era invece indicato con un riferimento preciso: «Pollaio Alloia». Le date dicono che i versamenti furono effettuati subito prima e subito dopo la strage del 2 agosto. Nessuno allora lo immaginava, ma si trattava delle prime tracce consistenti di una operazione finanziaria occulta per la quale quarant’anni dopo, all’indomani della sentenza pronunciata al termine del processo di cui ci occupiamo, i giornali hanno potuto scrivere che «Gelli finanziò la strage di Bologna». L’ipotesi, al momento in cui scriviamo, è ancora al vaglio degli inquirenti ma già ora appare decisamente verosimile; l’Associazione tra i familiari delle vittime del 2 agosto aveva invitato la Procura di Bologna a occuparsene già nel 2010, producendo le ricerche compiute dai propri consulenti. Vale la pena dunque ricostruirla sin dall’inizio. L’appunto a «M.C.» era stato sequestrato dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi il giorno in cui erano stati perquisiti gli uffici della ditta Gio.Le, gli uffici di Licio Gelli. Quel giorno, il 17 marzo 1981, i magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo in gran segreto avevano inviato le Fiamme Gialle a cercare documenti connessi alle attività del finanziere Michele Sindona e alla scomparsa dei fondi miliardari del Banco Ambrosiano. Furono fortunati: da una valigia emersero gli elenchi degli appartenenti alla loggia P2. Ne nacque uno scandalo politico di proporzioni epocali. Gelli fuggì, rendendosi latitante. Per mesi i giornali non parlarono d’altro; il foglietto indirizzato a «M.C.» finì invece insieme a milioni di altre carte nei voluminosi dossier del processo Ambrosiano. Un anno e mezzo dopo, il 13 settembre 1982, un uomo dai vistosi baffi neri si presentò negli uffici ginevrini della Ubs, chiedendo di un alto funzionario della banca con cui aveva appuntamento. E che appuntamento: si trattava di mettere in salvo parecchi milioni di dollari custoditi in un conto sotto il falso nome di Luciano Gori, svuotare in fretta la cassetta di sicurezza numero 479 colma di incartamenti riservati, e trovare il modo di trasferire al più presto una montagna d’oro, lingotti per almeno 250 chilogrammi. Era in realtà il tesoro di Gelli. In pericolo perché la magistratura svizzera già aveva sequestrato i depositi di Flavio Carboni, ricercato per aver favorito in combutta con Gelli la fuga dall’Italia di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato cadavere a Londra pochi giorni prima. Suicida, si disse; in realtà assassinato da killer mafiosi giunti dall’Italia. Non rimaneva molto tempo: da un momento all’altro sarebbe stato sequestrato anche il patrimonio del maestro venerabile della P2, che aveva contribuito a saccheggiare la banca milanese. Per tentare di evitare il sequestro l’uomo dai baffi neri si era precipitato a Ginevra dall’Argentina, munito di un passaporto intestato falsamente a Marco Bruno Ricci. Ma baffi e capelli tinti non bastarono a trarre in inganno la polizia elvetica, che lo aspettava. Il latitante Licio Gelli fu arrestato così, come un malvivente comune, all’interno della stessa banca. Invano dichiarò di essere venuto in Svizzera a chiedere asilo politico. Nella centrale di polizia fu perquisito minuziosamente: dalla borsa che portava uscirono incartamenti riconducibili alle operazioni effettuate per impadronirsi della società Rizzoli, e le chiavi della favolosa cassetta di sicurezza. Gelli sostenne che il denaro depositato all’Ubs – quasi trenta milioni di dollari – non proveniva dall’Ambrosiano bensì da una banca sudamericana del suo amico Umberto Ortolani, e lui lo aveva guadagnato con operazioni immobiliari. Durante la perquisizione fu catalogato, col numero 27, anche un foglio ripiegato in quattro che Gelli «conservava con grandissima cautela, portandolo sulla propria persona» come hanno scritto poi i magistrati milanesi. Si trattava di uno specchietto battuto a macchina e corretto a penna: la rendicontazione di somme per quasi quattordici milioni di dollari consegnate a persone ed entità citate in codice tra il 3 settembre 1980 e il 12 febbraio successivo. Tali movimenti si riferivano al conto bancario numero 525779 XS; il foglio quadrettato recava in maiuscolo l’intestazione «BOLOGNA». Quel foglio avrebbe dovuto far ricordare quanto dichiarato a suo tempo da Roberto Calvi: che, cioè, nella sua valigetta c’erano carte compromettenti su Gelli e la strage di Bologna. Ma dopo la sua morte a Londra la valigia del banchiere era scomparsa; e quando fu fatta riapparire, anni dopo, a opera dello stesso Carboni nel corso di una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi, essa risultò desolatamente vuota.

Nonostante la sua inequivoca intestazione il foglietto del “conto Bologna” sequestrato a Ginevra non fu mai trasmesso ai magistrati bolognesi.

(C) 2020 Lit edizioni S.a.s.

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